Cenni Storici

Le origini, Società ed Economia, costume tradizionale, giochi di gruppo.

Origini

Non sembra suscitare dubbi l’etimologia del nome di CASTELPOTO. Il paese avrebbe preso il nome da Potone, duca longobardo, nipote del principe Radelchi di Benevento e che fu prigioniero di Siconolfo di Salerno entrando a far parte in uno scambio di prigionieri nell’anno 844, come si rileva dal “Chronicon Anonimi Salernitani”. Antonio Iamalio (Atti della Società Storica del Sannio Anno VI Fascicolo 2/3 Maggio/ Dicembre 1928), invece, riferisce di un altro Potone che avrebbe avuto il castello in cambio di un’azione nefanda nei confronti di uno dei successori di Radelchi: Adelchi o Adelgiso [Non si sa bene se nell’878 o nell’anno seguente, morì Adelchi (dopo venticinque anni di regno) di morte violenta, procuratagli dai generi, nipoti ed amici, per mezzo del sicario Potone, cui fu dato in compenso un castello presso Benevento (Castelpoto)…] Oltre queste esistono altre due interpretazioni circa l’origine del nome Castelpoto. La prima del Rev. De Mennato che, considerando la posizione geografica del paese, dominante sul tracciato della Via Latina, ne fa derivare il nome dall’etimo latino “Castrum Potens”. L’altra è avvalorata da un memorialista napoletano sulla base di un’iscrizione funeraria che si trova nella chiesa della “Pietra Santa”, in Napoli, sulla tomba di un giovane sacerdote di casa Puoti. Sulle origini di CASTELPOTO non è possibile, allo stato attuale, avere notizie precise. È probabile che sia stata abitata fin da tempi molto antichi. Sembra che il primo nucleo abitativo, tenuto conto della presenza di sorgenti perenni e di un’ampia fetta di territorio pianeggiante, fosse da localizzare alle contrade Motta e Santo Spirito. La vicinanza con Benevento e la posizione predominante sulle Via Latina e Appia, giustificano a sufficienza la presenza di resti di epoca repubblicana e imperiale. Già nel secolo scorso, Mommsen aveva catalogato (rep. n. 1704) un’iscrizione in lingua latina rinvenuta nel territorio di Castelpoto

D. M. VIBBIAE. PRIMA E. VIBBIA. SAE CUNDA. PATRONAE. B. M. F.
e il Rev. De Mennato, arciprete di Castelpoto, nel 1819 scriveva ad A. Mellusi circa il ritrovamento, avvenuto cinquant’anni prima alla contrada Motta, di un “grande tesoro di monete”, nonché di sepolcri antichi e vasi etruschi (sic!) che si continuavano a scavare nella contrada. Nello stesso periodo il Garrucci si è occupato della scritta
M. MUNANTIUS M.F. FILIUS
impressa sulle pietre di uno dei quattro piloni di sostegno del ponte attraverso cui la via Latina scavalcava il fiume Calore, alla contrada Maurelle. Lo stesso studioso si è occupato di un’altra lapide scoperta nel territorio di Castelpoto:
“A Castel Poto tribus horae partibus versus Apelosam in campo q. d. s. S. Spirito prope locum q. d. la Motta”

IOBI . OPTIMO T . VATINIUS VATINIANUS T . VATINIUS VITALIS FILIS VATINIANI VOTUM LIBES SOLUERUNT
Un altro viadotto di origine romana, e su cui transitava la via Latina, scavalcava, nei pressi del “ponte delle Maurelle”, il torrente Jénga. Anche all’interno dell’attuale centro abitato o nelle immediate vicinanze sono state rinvenute iscrizioni funerarie e aree votive dedicate alla dea Giunone, sul colle di Sant’Andrea, e ad Ecate Trivia, in vico Pietra e in vico Porrillo. Altre presenze relative al periodo romano, iscrizioni funerarie, sculture e i probabili resti di una villa, sono state individuate alla contrada Ciésco. Quando nell’anno 568 i Longobardi passarono le Alpi ed entrarono in Italia per invaderla, un gruppo abbastanza consistente si staccò dal grosso, che si era fermato nella pianura padana, e al comando di Zotone percorse tutta la penisola e si stabilì nel Sannio. Castelpoto durante il primo periodo della dominazione longobarda non doveva essere altro che una dipendenza di Benevento; e tale dovette restare fino al IX secolo, quando fu dato come feudo, dal principe Radelchi, signore di Benevento, al nipote Potone. Nel corso delle lotte per la supremazia sul principato beneventano, Potone, poiché si era schierato, a quanto pare, con la fazione che faceva capo ai signori di Capua, fu privato del ducato e le sue terre furono concesse all’abbazia di Santa Sofia di Benevento. Castelpoto resta, così, sotto la signoria degli abati fino al 900. Ma quando Atenolfo I di Capua, dopo aver sconfitto Radelchi II, divenne signore di Benevento è molto probabile che i discendenti di Poto siano rientrati in possesso dei loro castelli e domini e che li abbiano mantenuti fino all’XI secolo, data della conquista normanna. Il Mellusi parlando dell’origine longobarda di Castelpoto ebbe modo di affermare: “Castelpoto, castrum Potonis, sospeso sul fiume, serba non solo nel nome l’impronta dell’origine Longobarda, se è vero che il costume degli abitanti restò proclive alle vendette”. Agli inizi dell’XI secolo l’Italia meridionale fu invasa da un nuovo popolo di guerrieri e di predoni provenienti dal nord dell’Europa: i Normanni. Anche Castelpoto, come le altre terre sannite, cadde sotto la loro dominazione. Mentre Benevento, nell’anno 1077, veniva aggregato allo stato della Chiesa, Castelpoto continuava a seguire le sorti del resto del Meridione. È nel “Chronicon” di Falcone Beneventano che, per la prima volta nella storia, compare il nome Castelpoto. Narra Falcone che nel 1114 Ugo de Castiellopotonis intervenne alla stipulazione della pace tra i Normanni e i Beneventani, alla presenza del conte Roberto e di Giordano di Ariano, insieme ai nobili normanni Roberto Schiavo di Paduli, Gerardo della Marra di Pesco e Raone (Rodolfo) di Ceppaloni. Ugo, oltre che signore di Castelpoto, possedeva anche Fenucchio (nell’attuale territorio di Torrecuso). Durante la dominazione normanna Castelpoto raggiunse l’apice della sua potenza essendo un posto di frontiera di grande rilevanza strategica, poiché era il centro normanno più vicino Benevento. Seguendo la ricostruzione di Falcone, nel 1122 a Ugo seguì il figlio Ugo Infante (Juniore). Ugo Infante fu alleato del conte di Ariano nelle lotte contro il principe Guglielmo di Salerno e partecipò alla conquista di Paduli insieme a Raone di Boscone e a Raone di Fragneto, quando quel castello fu assalito dal conte Giordano di Ariano, tradizionale alleato di casa “de Castiellopotonis”. Quando, nel 1127, morì Guglielmo, senza aver lasciato eredi, il conte Ruggero di Sicilia, dopo avere conquistato il ducato di Amalfi e quasi tutta la Puglia ridusse sotto il proprio dominio anche Castelpoto e le sue terre. Poiché il papa Onorio II si rifiutò di riconoscere a Ruggero il titolo di duca di Puglia, Ugo ebbe l’incarico di attuare una serie di rappresaglie contro Benevento e i suoi abitanti. Ugo adempì al suo compito con particolare ferocia. Ai prigionieri strappava i denti e rompeva le ossa, liberando solo quelli che potevano permettersi di pagare un cospicuo riscatto. In quello stesso anno, a seguito di uno dei frequenti ribaltamenti di alleanze, Rainulfo di Avellino e il principe Roberto di Capua si avvicinarono al Papa. In questa fase Ugo di Castelpoto si alleò con Rainolfo e Roberto di Capua. Nel 1133, pentitosi di aver tradito Ruggero, Ugo ritornò ad allearsi con lui che, nel frattempo, si era fatto proclamare re. La nuova fedeltà giurata a Ruggero non andò, in ogni caso perduta. Ruggero risultò, alla fine, vincitore ed è da ritenere che abbia confermato Ugo non solo nei suoi precedenti possedimenti, ma che abbia provveduto ad aumentarglieli in modo considerevole. Un figlio di Ugo, Tommaso, nel 1143 fa prigioniero Gregorio, arcivescovo di Benevento e insieme al fratello, anche lui di nome Ugo, l’anno successivo scambia alcuni possedimenti con l’Abate di San Modesto. Negli annali continua ad essere usato, per indicare Castelpoto, il nome di Castelpotone. Al tempo di Guglielmo II, non si parla più del signore di Castelpotone, Lapillosa, Feniculo e Torre Palazzo, bensì soltanto del barone di Feniculo (Fenucchio) e il primo a portare questo nome fu Tommaso di Fenucchio (1180 ?). Era costui un diretto discendente di Ugo Infante, poiché Ugo seniore era anche chiamato, nella “Cronaca di Santa Sofia”, Ugo di Feniculo. Gli storici sono concordi nell’affermare che Tommaso fu “uno dei più potenti baroni locali” e “uno dei più fidi Normanni, se, in quel modo, fu remunerato dai suoi re”. Durante il regno di Guglielmo II, detto il Buono, si instaura tra Normanni e regno pontificio, un clima di pace e di collaborazione, tanto che, su richiesta del papa Alessandro III, il re concede ai Beneventani il diritto di portare le greggi al pascolo e di abbattere gli alberi da legna nel demanio regio fino a una distanza di mezza giornata di cammino dai confini del reame. A Tommaso di Feniculo succedette il figlio Ugo e, a questi, Ruggero che fu l’ultimo duca della stirpe. Nel 1189, alla morte di Guglielmo II, privo di eredi diretti, si contendono il trono Enrico VI di Svevia, marito di Costanza di Altavilla, figlia di Ruggero II, e Tancredi di Lecce, figlio naturale dello stesso Ruggero. Nel 1194 Tancredi muore lasciando il regno al figlio Guglielmo III, ma questa volta Enrico, con un forte esercito alle spalle e con l’aiuto della flotta pisana e genovese, in poco tempo s’impadronisce del potere e il 25 dicembre, nella cattedrale di Palermo, è proclamato re di Sicilia. Tommaso di Fenucchio, per essersi schierato dalla parte di Tancredi, è privato della sua baronìa che è assegnata all’abbazia di Santa Sofia di Benevento. Il figlio e successore di Tommaso, Ugo di Feniculo, per far rivalere i suoi diritti si appellò alla corte ed il re gli riconcesse il possesso delle terre paterne, ponendo, però, alcune condizioni circa i rapporti tra l’abbazia e la baronia; tra le altre era previsto un giuramento formale da parte del barone normanno nelle mani dell’abate. L’ultimo discendente della dinastia normanna fu Ruggero, figlio del precedente. Alla sua morte le terre entrarono a far parte della famiglia De Stipitis, del giustizierato svevo della Capitanata (Foggia). Tra il settembre del 1197 e il novembre del 1198, Costanza rinnova, ancora una volta, i diritti dell’abbazia di Santa Sofia relativi ai diritti di pascolo e di recidere alberi da legno nell’ambito del demanio regio. Nel 1197, Enrico VI muore e l’anno successivo anche Costanza lo raggiunge nella tomba, non prima di aver affidato la tutela del figlio minorenne, Federico, al papa Innocenzo III. Federico, raggiunta la maggiore età nell’anno 1208, sale al trono e, per ringraziare il papa, rinnova i privilegi precedentemente concessi a Benevento. La concessione è confermata con privilegio, datato in Aversa, dell’anno 1221 (arch. di S. Sofia – tomo 8, n. 11). Questa situazione, anche se potenziò l’economia delle contrade interessate, contribuì a creare delle abitudini che in seguito divennero veri e propri diritti che portarono ad occupazioni arbitrarie di terreni e castelli da parte beneventana. In seguito la baronia è affidata prima direttamente a Riccardo di Anglona, scudiero dell’imperatore, e, poi, nel 1222 di nuovo a Santa Sofia con l’obbligo, però, da parte di quest’ultima di rinunciare all’amministrazione diretta in favore di Riccardo e dei suoi eredi. Castelpoto, però, a causa delle occupazioni pontificie già da qualche tempo in atto, sembra seguire un percorso differente dal resto della baronia di Fenucchio. Queste acquisizioni, secondo alcuni, sarebbero iniziate prima dell’anno 1220, mentre altri propendono per gli anni tra il 1228 e il 1230 al tempo della guerra tra Federico II e il papa Gregorio IX. L’abate Nicolò di S. Sofia, ritenendo che nella concessione di Enrico VI fossero compresi tutti i territori della baronia, inoltrò richiesta di acquisizione all’imperatore in conformità a due documenti e con l’avallo del giurista Roffredo Epifanio. Il primo documento è del dicembre 1225, al tempo dell’abate Matteo; il secondo è dell’anno 1244, abate Pietro. Nel 1229, in seguito alla rottura dei rapporti tra l’imperatore e il papa, Federico II rioccupò tutte le terre che gli erano state sottratte. Un testimone, Luca Malanotte, affermò: “quod ipse vidit Beneventanos tenere Castrum Potonis et XL annis circiter et bene sunt XXX anni et plus quod Imperator abstilit eis violenter” (Laureato Maio – La battaglia di re Manfredi e la fine del dominio svevo sul territorio beneventano Riv. St. del Sannio n. 4, 3^ serie, anno II). Nel 1230 Castelpoto rientra nell’orbita sveva. Alla morte di Federico II, avvenuta il 13 dicembre 1250, dopo il breve regno del figlio Corrado IV, assunse il potere, prima come reggente in nome del nipote Corradino e poi usurpandone il titolo, il figlio naturale Manfredi. Manfredi fu sconfitto nella cosiddetta Battaglia di Benevento da Carlo D’Angiò, chiamato in Italia dai papi Urbano IV e Clemente IV. La battaglia si sarebbe svolta nella piana di S. Vitale e il re sconfitto sarebbe stato sepolto presso il Ponte delle Maurelle. Nel 1269, in seguito alla sconfitta di Corradino di Svevia, che aveva cercato di riconquistare il regno, la baronia di Fenucchio fu definitivamente smembrata a favore di Giovanni Frangipane Della Tolfa, come premio per aver tradito e consegnato al D’Angiò lo sfortunato Corradino e i suoi seguaci, mentre Castelpoto veniva riconcesso all’abbazia di S. Sofia. Nel 1272, per stabilire definitivamente i confini dello Stato Pontificio, su incarico di Gregorio IX, il vescovo Ludovico di Anagni, procedette alla raccolta di una serie di testimonianze per avallare le avvenute spoliazioni. Dalle testimonianze, non sempre concordi tra di loro, è accertato che Castelpoto fu governata prima da un certo Macrapellis, che risiedeva in Torrecuso, e poi da un Pietro Capoto; Pietro di Cervo affermò che il confine pontificio passava per “Castrum Potonis, ad duas arcatas cum arcu et vadit per Calorem usque ad pontem Fenuculi ” (L. Maio – op. cit.) In questo periodo Castelpoto aveva talmente perso di importanza ed era diventata così piccola che nel Cedolario del 1320 viene tassata per “soli 2 tarì e 8 grana”, vale a dire meno di tre monete d’oro. Nella memoria storica dei Castelpotani è stata sempre presente la figura di Manfredi di Svevia, il “biondo e gentile re” come fu definito da Dante nel terzo canto del “Purgatorio”. L’esatta ubicazione di quella che è nota come la “Battaglia di Benevento” è sempre stata incerta e i vari tentativi di localizzazione hanno suscitato polemiche feroci tra gli storici che si sono cimentati sull’argomento. I memorialisti dell’epoca, prodighi di notizie sullo svolgimento della battaglia, sono stati oltremodo parchi nell’indicazione dei luoghi; come, del resto, lo sono stati nell’indicare la sepoltura dello sfortunato re, di cui sappiamo solo che fu sepolto in“co’ del ponte presso Benevento”. Gli storici, di volta in volta, hanno identificato come possibili luoghi della battaglia Roseto, il ponte Leproso, la piana di Ponte Valentino, quella di San Vitale o quella di Pantano. Quello che sappiamo in modo incontrovertibile è la data della battaglia, 26 febbraio 1266, e la strada percorsa dalle truppe francesi di Carlo d’Angiò. Un altro punto su cui tutti possono tranquillamente concordare è che la provincia di Benevento, a causa della sua natura collinare, non è dotata di molte vere e proprie pianure adatte ad una battaglia con eserciti schierati in campo aperto, soprattutto se di una certa consistenza. Anche la direttrice dell’esercito francese nella sua marcia di avvicinamento a Benevento è abbastanza sicura; Carlo D’Angiò seguì, grosso modo, il tracciato dell’ antica Via Latina che da Roma conduceva a Benevento, attraverso la Valle Telesina. La strada, dopo aver attraversato, una prima volta, il fiume Calore nei pressi di Telese, proseguiva costeggiando la riva sinistra del fiume e prima di aggirare le propaggini dei monti Pèntime e Caruso si divideva in due rami: il primo, dopo aver scavalcato il fiume al ponte Fenucchio, si dirigeva verso Torre Palazzo e le alture circostanti di S. Giovanni, della Caprara e di Villafranca; l’altro, il principale, proseguiva in direzione del colle di Castelpoto alle cui falde un altro ponte, quello delle Maurelle, di cui esistono ancora i resti, permetteva il passaggio del fiume, prima di inerpicarsi lungo la collina di San Vitale e scendere, poi, verso Benevento, nella piana di Pantano. Ritornando agli avvenimenti storici e alle fasi precedenti la battaglia, quando Carlo D’Angiò si rese conto che non era possibile forzare il Volturno a Capua, poiché i guadi erano ben difesi dall’esercito svevo, temporeggiò nei pressi di S. Germano (Cassino) e di Aquino che si arresero alle truppe francesi. Manfredi, intuito che l’obiettivo del suo avversario era di tagliarlo fuori dalle Puglie, si ritirò nel Sannio beneventano con l’intenzione di appoggiarsi a Benevento dove esisteva un consistente partito filo-svevo e dove poteva contare sull’aiuto dello stesso arcivescovo, Romano Capodiferro che aveva presenziato alla sua incoronazione a re di Sicilia. A questo punto l’accordo tra le varie ricostruzioni storiche salta. Secondo un gruppo di storici, soprattutto beneventani e tra cui spicca il Meomartini, l’esercito francese, dopo aver seguito la riva destra del fiume Calore, si sarebbe diretto verso ponte Valentino, ad est di Benevento, dove erano schierate le truppe sveve. Questa ricostruzione è inficiata da una serie di incongruenze; non si capisce perché Manfredi, con la sua cavalleria tedesca, nettamente superiore sul piano tattico e della preparazione militare, abbia permesso all’esercito francese di attraversare impunemente l’ampia distesa che si frappone tra Torre Palazzo e ponte Valentino, senza cercare di bloccarlo; d’altra parte se il re svevo avesse schierato l’esercito a ponte Valentino, non avrebbe avuto alle spalle la città, come affermano i memorialisti dell’epoca, ma chiaramente sul suo fianco sinistro. Per superare queste contraddizioni, altri storici sono ricorsi all’artificio dello spostamento dell’itinerario seguito dalle truppe francesi. Carlo D’Angiò, una volta superate le località di Alife e Piedimonte, avrebbe fatto marciare le sue schiere lungo le falde dei monti del Matese, fino agli attuali confini con il Molise, prima di ripiegare verso Benevento e il ponte, seguendo la direttrice del fondo valle Tammaro. Ipotesi questa molto improbabile, solo se si tiene conto che il percorso sarebbe stato eccessivamente lungo e stancante per un esercito già a corto di viveri e nell’impossibilità, a causa della stagione, di trovarli in loco. In quanto poi al ponte Leproso questo si autoesclude, essendo da tutt’altra parte: sulla Via Appia, anziché sulla via Latina; senza tenere conto che le distanze, tramandate dagli storici, non coincidono assolutamente, poiché il luogo della battaglia era identificato a non meno di 5/6 chilometri dalla città di Benevento. Secondo la tesi sostenuta da mons. Maio (La battaglia di re Manfredi e la fine del dominio svevo sul territorio beneventano (Rivista Storica del Sannio) n.4, 3^ serie anno II^) sulla scorta di documenti conservati nell’Archivio Segreto Vaticano e ultimamente scoperti. Mentre Carlo D’Angiò si avvicinava a marce forzate, seguendo la direttrice della Via Latina, Manfredi schierò l’esercito nella zona di Roseto, anche perché il castello di Fenucchio era tenuto dallo zio materno Manfredi Lancia e, pertanto, in grado di fornirgli appoggio immediato in caso di bisogno. Carlo D’Angiò, giunto alla diramazione di ponte Fenucchio, preferì guadare subito il fiume, nonostante le difficoltà, in modo da stringere lungo la riva destra del Calore l’esercito svevo e precludergli un’eventuale ritirata verso le Puglie, risalendo verso il colle di Caprara, dove pose il suo campo. “I cronisti e lo stesso Carlo D’Angiò parlano d’un colle, su cui si accampò l’esercito franco… la cui distanza da Benevento (indicata dall’Ungaro in circa quattro miglia) ci sembra esatta: posta… a quota 496 sul livello del mare. Nella discesa da questa altura verso la zona detta della Làmmia, l’esercito franco vide schierate le forze sveve nella pianura digradante verso il Calore, che corrisponde ai territori non lontani dal ponte Finocchio, detti oggi Mascambruni, Olivola, Masseria del Ponte posti nelle adiacenze di Roseto. In questa zona avvenne lo scontro tra l’esercito franco e quello svevo. I cronisti, infatti, ce ne indicano il luogo con molta precisione: parlano di Santa Maria della Grandella, di Pratus dominicus o floridus e di Pietra di Roseto. Tutte queste località sono situate nella zona suddetta e risultano tra loro contigue. Santa Maria della Grandella è una zona storicamente accertata fin dall’anno 1144, quando Ugo Infante signore del castello di Feniculo cedette all’abate di San Modesto una terra e un prato in località Monterotaro… presso la chiesa di S. Maria della Grandella…”. Il manoscritto vaticano poi ci riferisce che nella contrada di Roseto era situato il “pratus dominicus”; e da un altro documento sappiamo che più precisamente si trovava tra S. Maria della Grandella e la Pietra di Roseto e corrispondeva ad un ben definito territorio di dominio ecclesiastico, dove appunto avvenne la battaglia. Secondo, infine, un altro gruppo di storici, nella sua marcia di avvicinamento a Benevento, Carlo prese una serie di precauzioni, per non entrare subito in contatto con l’esercito nemico, cercando di tenersi quanto più possibile al coperto, condizione questa garantita dalle selve che, a quei tempi, coprivano ancora il massiccio del Taburno/Camposauro, e protetto, per di più, dal corso del Calore che, data la stagione, era ricco di acque se non proprio in regime di piena. La presenza, inoltre, di una forte guarnigione sveva, al comando di Manfredi Lancia, zio materno del re, nel munito castello di Fenucchio, proprietà di una famiglia tradizionalmente legata alla casa normanno/sveva, e che dominava con la sua mole il ponte sul Calore, avrebbe sconsigliato a Carlo D’Angiò di proseguire la sua marcia lungo il tracciato principale della Via Latina; senza contare che il fiume, in quel tratto, scorre tra due rive alte e scoscese che ne avrebbero impedito il guado. La marcia si svolse con grande fatica e difficoltà “Velut arcerius siculis, qui de mane ad vesperas damnum sequitur” (S. Malaspina -Rerum Sicularum Historia- (in Muratori- R.I.S., t. VIII). D’altra parte, se la marcia si fosse svolta attraverso la direttrice del Matese, non si vede come gli arcieri siciliani avrebbero potuto ostacolarla, sempre tenendo conto delle distanze. Molte fonti, riferiscono poi, cosa confermata dallo stesso Carlo in una lettera a Clemente IV, che l’esercito francese pervenne alla cima di un colle da cui si vedeva una bellissima pianura “Ad quemdam montem perveni unde subiectus et ad modum patens campus ordinatas iam hostium acies ostendabat” e Ugone del Balzo, in una lettera ai nobili D’Angiò (Minieri Riccio, op. cit.) ”e quodam monte discendentes vidimus, in quadam planitia pulcherrima Manfridium quondam principem cum toto exercitu suo”, mentre un fiume divideva tale colle “ab ipsa terra (Beneventi)”. L’unica zona che sembra avvicinarsi con la maggiore approssimazione a queste caratteristiche è rappresentata dal costone che dal monte Caruso scende verso la valle del Calore, posto, grosso modo, tra i comuni di Torrecuso e Foglianise. Anche l’andamento altimetrico del territorio conforta questa ipotesi: dai suoi 400 metri circa è possibile avere una visione d’insieme e della “pulcherrima planitia” posta a 260 metri e della città di Benevento a 135 metri di altitudine. Dopo aver concesso una notte di riposo ai suoi, Carlo D’Angiò, la mattina del 26 febbraio, iniziò la marcia di avvicinamento al nemico, scendendo, attraverso la odierna contrada di Utile, verso il fiume, che avrebbe attraversato al ponte delle Maurelle: l’unico punto dove si poteva guadare il fiume con una certa facilità, tenuto conto che il mese di febbraio non è particolarmente ricco di precipitazioni piovose. Manfredi, pertanto, non può che avere schierato il suo esercito nella pianura di S. Vitale, avendo alle spalle Benevento, in cui poteva contare su amici potenti, ma abbastanza lontano dalla città che era pur sempre pontificia, con una altrettanta forte fazione filo-francese. La seconda “vessata questio” riguarda la localizzazione della sepoltura di Manfredi. Anche qui gli storici si dividono in più schiere: alcuni identificano il famoso ponte con il Ponte Valentino, altri propendono per il Ponte Major, di cui esistono alcuni ruderi a valle dell’attuale Ponte Vanvitelli, altri ancora il Ponte Fenucchio o il Ponte delle Maurelle. I soliti memorialisti contemporanei ci informano che il re svevo fu sepolto sul campo di battaglia e su questo non sembrano esistere opinioni contrarie. Escludendo a priori il Ponte Valentino, perché, come abbiamo visto, non coinciderebbe con il luogo della battaglia e il Ponte Major, perché troppo lontano da ogni località in cui si sarebbe svolto l’ultimo atto della vita di Manfredi, sia essa Roseto o San Vitale, non resta da prendere in considerazione che il ponte Fenucchio e il ponte delle Maurelle, tra la piana di San Vitale e Castelpoto. Alcuni storici tendono ad escludere il ponte delle Maurelle, demolendo la tesi avanzata dal Meomartini, ed hanno ragione, perché Meomartini localizzò detto ponte poco più a valle del ponte Vanvitelli, dove esistono alcuni ruderi sulle opposte rive del Calore. Ora, a prescindere che questi ruderi nulla hanno in comune con la struttura e la consistenza di eventuali spalle di ponte, sono disposti in modo tale da ipotizzare che il corso del fiume fosse parallelo all’attuale viale Principe di Napoli. Questi ruderi, come ha dimostrato E. Greco (Il sepolcro di Manfredi presso Benevento – Benevento 1921) costituiscono gli avanzi di mulini o altre costruzioni similari. Ma in tutto ciò non hanno tenuto conto che, molto più a valle, esistono i resti di un grosso ponte romano, su cui non è possibile avanzare dubbi di sorta, e che il sito, da tempi immemorabili, è chiamato Maurelle. Il Malaspina, infine, parla di una chiesetta presso il campo di battaglia. Questa chiesetta diruta “quaendam ecclesiam ruinosam” sarebbe stata edificata sui resti di un tempietto pagano. E proprio alle Maurelle sono stati localizzati, duranti i lavori per la costruzione dalla strada di fondo valle, i resti di una necropoli, se non si vuole tenere presente quelli di un tempietto romano dedicato alle ninfe delle acque. Mons. Maio (La battaglia di re Manfredi e la fine del dominio svevo sul territorio beneventano -Rivista Storica del Sannio- n. 4, 3^ serie/anno II^) coerentemente con le conclusioni raggiunte nell’identificazione dei luoghi della battaglia di Benevento, formula un’altra ipotesi. “Il ponte presso cui fu inumato il cadavere di Manfredi non può non essere che quello di Feniculo… e la , di cui parla Dante, potrebbe essere l’enorme roccia che sovrasta la spalla sinistra del ponte, sotto la quale il corpo di Manfredi potrebbe essere stato inumato e coperto poi da un cumulo di pietre lanciate dai soldati. Il cronista Saba Malaspina parla d’una “chiesa ruinosa”, presso cui sarebbe stato sepolto Manfredi. Se bisogna dar credito a questa notizia, la cosa non è in contraddizione poiché nel territorio di Feniculo, come già sappiamo, c’era più d’una chiesa antica, come S. Giorgio, S. Pietro in Russano, S. Giovanni e S. Martino. Ci sembra però più verosimile che debba trattarsi proprio della chiesa di Santa Maria della Grandella, storicamente conosciuta e di cui una recente ricerca ha indicato l’ubicazione. Altra località di cui si parla nelle fonti è la terra di S. Marco; ne fa cenno lo stesso Carlo D’Angiò… e territorio di S. Marco, infatti, era detta una contrada con relativa chiesa finitima a quella del colle di Caprara. Lì ovviamente Carlo D’Angiò avrà posto il suo quartiere militare e perciò ricorda la zona dedicata a S. Marco come campo della sua vittoria”. Nel XIV secolo, e precisamente a datare dal regno di Roberto d’Angiò, Castelpoto è infeudata alla famiglia Della Leonessa. Questa famiglia, ritenuta francese, più probabilmente, doveva essere originaria di Capua dove risiedeva con il cognome “de Lagonessa”. Degni figli del loro tempo i Della Leonessa non si distinsero per particolare benevolenza verso i sudditi, i quali più di una volta fecero appello a Carlo II d’Angiò, perché intervenisse ad alleviare le loro pene. Ma le richieste di aiuto furono sempre vane. Il primo duca di Castelpoto, appartenente alla famiglia, fu Guglielmo e i “Della Leonessa” si mantennero complessivamente fedeli alla casa D’Angiò anche quando il regno passò in mano agli Aragonesi. Alfonso della Leonessa, subentrato al nonno Giacomo che, a sua volta, aveva ricevuto il titolo a causa dell’estinzione del ramo primogenito terminato con Viola della Leonessa, perse i suoi beni per aver partecipato alla congiura contro il re Ferdinando I d’Aragona. Nel 1461, però, Ferdinando I riconcesse i feudi espropriati a Fabrizio della Leonessa, in cambio di 1500 ducati. In questo periodo Fabrizio presentò alla Regia Camera della Sommaria lo stato delle rendite dei feudi disabitati di Fenucchio e Torrepalazzo e delle terre di Torrecuso, Apollosa, Castelpoto e Telese. I successori di Fabrizio furono nell’ordine Marino, Giulio e Luigi tutti d’età avanzata e di salute malferma. L’ultimo della famiglia Della Leonessa, Luigi, morì senza eredi maschi. Delle due figlie: Giulia e Vittoria, la prima sposò Nicolantonio Caracciolo, marchese di Vico, portandogli in dote, tra le altre terre, anche Castelpoto. L’albero genealogico della famiglia Caracciolo inizia con Pietro, vivente a Napoli già dal IX secolo. Nel 1531 Nicolantonio fu creato marchese di Vico ed ottenne, con pochi altri nobili italiani, il privilegio di tenere, come i grandi di Spagna, il capo coperto al cospetto dell’imperatore Carlo V che accompagnò durante il suo viaggio in Germania. Gli ultimi anni della sua vita, però, furono resi amari dall’inattesa apostasia del suo unico figlio ed erede Galeazzo, il quale abbandonò la famiglia e le ricchezze per aderire alla riforma di Calvino. Dopo aver sposato Vittoria Carafa, dalla quale ebbe sette figli, nel 1551 egli abbandonò l’Italia e si rifugiò in Svizzera, dove si legò saldamente a Calvino, portando con se Barbato Ungaro di Torrecuso e Antonio Mercogliano di Castelpoto. Nel 1585, come riportato in una relazione del rev. Marco Panella, il territorio del comune fu più volte devastato da una serie di scorrerie di truppe francesi. Durante il ducato dei Ricca, Castelpoto si trovò coinvolta in una lunga vicenda giudiziaria con lo Stato Pontificio circa il possesso dei territori del Giarrétiéllo, Malamorte e Carrara, ritenendo, ognuno dei contendenti, essere proprietari delle contrade suddette e appellandosi, gli uni e gli altri, alle concessioni fatte ai tempi di Guglielmo II il Buono e successivamente dagli imperatori di casa Sveva. La diatriba ebbe inizio nel 1598, come riferisce al re di Spagna il conte Olivares, viceré di Napoli. Non riuscendo a trovare un accordo soddisfacente, i gendarmi beneventani organizzarono una spedizione punitiva. Giunti al Giarrétiéllo, avendovi trovato un gruppo di pastori castelpotani, li assalirono, portando via le greggi che lì pascolavano e furono “finanche strappate le cappe ai pecorai”. I Castelpotani, a loro volta, per vendicare l’affronto subito, organizzarono una contro spedizione. Al Giarretiello si erano recati, nonostante l’aria di burrasca, un gruppo di pastori beneventani sicuri che gli avversari non si sarebbero recati a disturbarli tanto presto, soprattutto dopo la lezione ricevuta. Nella scaramuccia che ne seguì, i Beneventani subirono la peggio e i vendicatori portarono a Castelpoto pecore e pecorai che furono rinchiusi nei sotterranei del castello. In quest’opera di vendetta si distinsero in modo particolare le donne e i cani, come risulta dalle numerose testimonianze di gendarmi beneventani sull’episodio riportate alla luce da mons. Maio in seguito alle sue ricerche negli archivi segreti del Vaticano. I poveri gendarmi parlano di “pretate” ricevute e qualcuno aggiunge che si è salvato da una ulteriore dose di colpi o scappando o fingendosi morto. Immediata fu la risposta del legato pontificio che ordinò l’assalto a Castelpoto e la liberazione dei prigionieri. Non solo. Scomunicò il duca e tutti i suoi sudditi. L’Olivares reagì ordinando il sequestro dei beni dell’arcivescovo esistenti nel regno di Napoli, nonché quelli dei due arcipreti che avevano proceduto alla pubblicazione della scomunica senza il regio “exequatur”. Per porre termine alla questione il nuovo viceré, conte di Lemos, nel 1600/1 si appellò al Papa perché fosse posto fine alla questione che rischiava di rendere sempre più tesi i rapporti tra i due Stati. Famosi giuristi napoletani, come il reggente Tapìa, il De Curtis e il Di Miscanza, nonché pontifici, i monsignori Alessandro Ludovisi, Maffeo Barberini e il governatore di Benevento Traiano Boccalini, si occuparono a lungo della delicata questione, senza tuttavia giungere ad una conclusione definitiva. Il 12 ottobre 1627 Fabio Ricca II, forse stremato dalle spese eccessive che la causa aveva comportato, vendette il feudo di Castelpoto al dottore in legge Giovanni Giacomo Bartoli per la somma di 18.000 ducati. L’atto di vendita, redatto dal notaio Francesco Antonio de Monte, fu approvato dal duca D’Alba, viceré di Napoli. Nell’atto, conservato presso l’Archivio di Stato di Napoli, è riportato l’elenco completo dei beni venduti “…terram Castripti sitam in prov. a Principatus Ultra, cum eius castro, seu fortellitio, palatio, hominibus, vaxallis…” Nel 1656 una grave epidemia di peste spopolò, insieme con tutte le terre del regno, anche Castelpoto. Infatti, se nel 1648 il paese contava 74 famiglie, nel 1669 queste si erano ridotte ad appena 40; anche Benevento subì il terribile flagello, passando da 18.000 abitanti ad appena 4.000. Il paese si era appena ripreso dalla falcidia della peste, quando, il 5 giugno 1688, un rovinoso terremoto, che provocò nel Sannio beneventano oltre 7.000 morti, distrusse Castelpoto uccidendo 32 persone. La chiesa di San Nicolò da Mira crollò, il castello fu gravemente danneggiato e lo stesso barone Nicola Bartoli restò vittima del cataclisma. Fu solo grazie al costante aiuto del cardinale Vincenzo Maria Orsini, arcivescovo di Benevento, che le popolazioni colpite poterono superare il tragico momento. Nel 1692, il cardinale, con un proprio decreto, ordinò la ricostruzione della chiesa, che fu consacrata dallo stesso Orsini il quattro novembre 1698. La formazione, nel 1737, del “Catasto Onciario” disposta da Carlo III di Borbone, contribuì al miglioramento delle condizioni economiche dell’Italia meridionale in generale. Questa condizione di relativo benessere fu, però, interrotta da una grave calamità naturale che colpì le popolazioni del Sannio che si erano appena riprese dall’epidemia di peste del 1656 che aveva spopolato il regno di Napoli e dal terremoto del 1688. Castelpoto, vicina ai confini dello Stato Pontificio di Benevento, soffrì meno lo spettro della fame. Un po’ ricorrendo alla liberalità del governatore di Benevento, Stefano Borgia, un po’ arrangiandosi, come testimonia De Rienzi (La carestia e l’epidemia del 1764 in Benevento Atti della Società Storica del Sannio anno II, fasc. II Maggio/Agosto 1924). Anche il secolo XIX è ricco di avvenimenti e di episodi particolari. Nel 1811 Castelpoto perse lo status di Università dotata di autonomia e fu aggregato al circondariato di Montefusco prima e al mandamento di Vitulano poi. Quando nel 1820 i tenenti dell’esercito borbonico Morelli e Salvati diedero avvio alle insurrezioni per ottenere dal re Ferdinando IV maggiori libertà per le popolazioni del regno, in molti paesi scoppiarono disordini e rivolte. Sotto le bandiere rosso/verde/turchino della Carboneria, alcuni sacerdoti e gli spiriti più illuminati cercarono di piantare, anche nelle nostre terre, l’albero della libertà. Il re, in un primo tempo, accolse le richieste dei ribelli e fece una serie di concessioni ai ribelli. Ma durò poco e la reazione fu spietata. Fra i settari destituiti da Ferdinando ci fu anche don Francesco Feo, parroco di Castelpoto. Qualcuno più fortunato o forse meno compromesso riuscì a sfuggire alle galere borboniche e anzi cercò di aiutare, per quanto era possibile, gli amici in difficoltà. Alle vendette dei Carbonari contro i realisti, si contrapposero le denuncie dei fedeli ai Borboni, quando la situazione ritornò allo stato precedente. Nel 1837 a Castelpoto scoppia un’epidemia di colera di cui si ha notizia da un rapporto del delegato apostolico di Benevento Enrico Orfei “…la dominante epidemia colerica nel regno (di Napoli) si è manifestata a non più di tre miglia distante da Benevento, nel villaggio di Castelpoto, al confine della giurisdizione pontificia…”. L’epidemia colpì 160 Castelpotani e fra questi ben 40 furono i morti. A cavallo degli anni 1860/63, Castelpoto offrì alla causa borbonica due briganti: Di Gioia Vito di Pietro, che figura ricercato in un bando del 4 ottobre 1862, e, soprattutto, Costanzo Maio. Appartenente a una delle famiglie predominanti di Castelpoto, Costanzo Maio era stato destinato dalla famiglia alla carriera ecclesiastica, ma il suo spirito inquieto e ribelle, dopo tre giorni, lo spinse a fuggire dal seminario di Benevento. Quasi per lavare l’onta il fratello Antonio prese il suo posto per divenire uno dei sacerdoti ricordati con più stima e affetto dai Castelpotani. In seguito alla conquista del regno di Napoli da parte dei Piemontesi, Costanzo Maio, che intanto si era sposato, forse per non essere incriminato insieme al cassiere comunale Francesco di Matteo di brogli nella gestione dei fondi, lasciò il paese per organizzare una banda di resistenza agli invasori nella zona di Avella, diventando uno dei più temuti capobanda del Principato Ultra. Durante una delle sue scorrerie rapì con la violenza una ragazza della zona di Ceppaloni, Matilde Rossi, per farne la sua compagna. Proverbiale è rimasto un suo ritorno a Castelpoto nel giorno dedicato al protettore S. Costanzo, quando, circondato da tutta la sua banda, si presentò armato di tutto punto nella piazza della chiesa, proprio al momento dell’uscita della processione. Il fratello sacerdote, rivestito dei paramenti sacri, lo rimproverò aspramente per la scelta che aveva fatto e il brigante, pur abituato a comandare, lasciò Castelpoto per non farvi più ritorno anche perché, poco dopo, la sua donna, non si sa se per vendetta della violenza subita o perché stanca della vita errante che era costretta a fare al seguito del suo uomo, durante la notte lo pugnalò e lo decapitò, mentre i resti della sua banda confluirono in quella di Cipriano La Gala. Negli anni successivi a Castelpoto, contrariamente a ciò che avveniva nel resto del paese, il triste fenomeno dell’emigrazione fu abbastanza limitato, nel ventennio 1861/1881 si passò da 1552 a 1532 abitanti, in seguito il paese poté incrementare il numero dei suoi abitanti fino a raggiungere, agli inizi del secolo successivo, la cifra di 1790 abitanti. Nel 1891 un’altra epidemia di colera contribuisce a frenare la crescita demografica di Castelpoto. Il ventesimo secolo, pur con i suoi progressi sociali ed economici, ha chiesto a Castelpoto e ai Castelpotani sacrifici non indifferenti. Sull’altare della prima guerra mondiale sono stati sacrificati ventiquattro nostri compaesani, nonché 174,30 lire, raccolte con una pubblica sottoscrizione, che i Castelpotani inviarono, tramite il Comitato pro-Liberati e Liberatori, agli “infelici fratelli dell’oltre Piave” appena… liberati. La seconda guerra mondiale portò altri morti e lutti nelle famiglie di Castelpoto. Dopo l’otto settembre le disgrazie non terminarono, anzi… Scriveva Alfredo Zazo (L’occupazione tedesca della provincia di Benevento – Morano Editore) “La requisizione di generi alimentari compiuta con misure coattive, danneggiò molte famiglie del paese. Il 2 ottobre i guastatori (tedeschi) fecero saltare il ponte sul torrente Lossauro per cui il centro rimase isolato. Il 14 ottobre un aereo tedesco inseguito da caccia alleati e attaccato dalla difesa antiaerea di Benevento, lasciò cadere una bomba di grosso calibro nelle immediate vicinanze del paese (località Vigna della Corte), causando la morte di tre bambini: (Mariano, Simplicio e Vittoriano Panella di Antonio e di Maria Angela Campone)”. Castelpoto divenne, inoltre, un importante nodo di comunicazione per i contrabbandieri che svolgevano i loro traffici tra Benevento e la Valle Caudina. Pur fra tanti lutti e disgrazie i Castelpotani non si tirarono indietro quando si trattò di aiutare chi era in condizioni peggiori e nell’Agosto del 1944 si raccolsero 4194 lire da inviare ai profughi per cause di guerra. Il carattere turbolento e deciso dei Castelpotani si rivelò anche durante il periodo della ricostruzione postbellica, quando con una serie di scioperi e manifestazioni riuscirono ad ottenere, uno dei pochi paesi del Sannio, l’apertura di cantieri di lavoro per i disoccupati. Il primo ponte ricostruito in provincia di Benevento fu quello sul torrente Sauro. Purtroppo il triste fenomeno dell’emigrazione, che ci era stato risparmiato all’atto dell’unità d’Italia, negli anni cinquanta e sessanta spopola in modo preoccupante Castelpoto facendolo precipitare dai 2415 abitanti del 1951 agli attuali 1527. I partiti della sinistra, facendo leva sulle condizioni economiche e sociali, cercarono di coagulare la protesta contro i governi del tempo, ma anche la loro opera fu inutile e, in qualche caso, dannosa per gli interessi della comunità. E come non bastasse, due terremoti, quello del 1963 e quello del 1980, provvedono a dare il colpo di grazia a una struttura abitativa già di per sé precaria.


Società ed Economia

CASTELPOTO, a causa della sua posizione geografica, stretto come è tra il fiume Calore e i torrenti Jénga e Ssauro, almeno fino al 1910 è stato condannato ad una esistenza di isolamento quasi totale. Prima del 1860, nonostante la sua vicinanza a Benevento, ne era tuttavia tagliato fuori, perché la città era territorio appartenente allo Stato della Chiesa.

Le comunicazioni con i paesi della Valle Vitulanese erano pressoché inesistenti; una mulattiera, impraticabile per una buona metà dell’anno, a causa del fango e della mancanza di ponti sul torrente Jénga, impediva l’instaurarsi di rapporti organici con quei paesi.

Con l’unificazione dell’Italia e la creazione della provincia di Benevento la situazione presentò un certo miglioramento. Fu costruita una strada provinciale che, però, non raggiungeva il centro abitato. Essa si fermava a quattro chilometri dal paese, alla contrada Vigna Della Corte, a valle della collina.

Questa strada di collegamento con Benevento, d’altra parte, costringeva a un lungo giro, a piedi o a dorso d’asino, per cui si preferiva, quando era possibile e le condizioni di portata d’acqua del Calore lo permettevano, approfittare di una “Scafa” che traghettava i viaggiatori sulla sponda destra del fiume e raggiungere Benevento seguendo il tracciato della linea ferroviaria. Il traghetto è rimasto in funzione, gestito dalla famiglia Giannuzzi e prima dalla famiglia Penna, Fusco e, prima ancora, Iadanza, fino agli inizi degli anni settanta, quando le migliorate condizioni economiche hanno permesso a molti di possedere un mezzo meccanizzato per i propri spostamenti.

Questa condizione di isolamento ha impedito non solo lo sviluppo di attività commerciali e artigiane rimunerative, ma anche il formarsi di un ceto medio-borghese che desse impulso alla vita intellettuale e sociale di Castelpoto. Non tutti potevano permettersi di dare una istruzione superiore ai propri figli. Studiare lontano da casa comportava un costo economico non indifferente per le loro scarse finanze.

Fino ancora alla fine degli anni quaranta, molti giovani, che volevano migliorare la propria condizione economica e sociale, dovevano affrontare gravi disagi per poter frequentare la scuola. Si era costretti a partire con il buio per raggiungere, a piedi, la città e trovarsi in orario al suono della campana d’ingresso; quando il fiume era in piena e la “scafa” non poteva traghettare si era costretti a fare un giro più lungo, seguendo il tracciato della strada provinciale, senza speranza di trovare un’anima buona che desse un passaggio su un carretto o su un asino.

Neanche gli studi elementari erano del resto agevoli. Gli scolari, durante l’inverno, portavano da casa l’occorrente per riscaldarsi: un poco di carboni ardenti dentro una piccola latta sospesa ad un filo di ferro e che ognuno poneva sotto il banco tra le proprie gambe. Chi aveva avuto la possibilità o la fortuna di portare a termine gli studi trovava impiego solo a Benevento o in altre città dove, del resto, formava la propria famiglia, sottraendo preziose energie intellettuali ed economiche del paese. Gli unici rappresentanti del ceto medio residenti stabilmente in paese erano il medico, il segretario comunale, il maestro e il parroco e le uniche notizie che si conoscevano erano quelle propagandate da un pubblico banditore che percorreva le strade del paese facendo precedere l’annuncio dal suono di un corno di ottone.

Prima del 1935, quando fu portata in paese, dalla sorgente del “Pisciariello”, per procurarsi l’acqua le nostre donne dovevano fare parecchia strada, tenendo in equilibrio sulla testa il contenitore di terracotta o di rame e portare contemporaneamente con le mani due grossi secchi. Le sorgenti più utilizzate erano quelle delle “Fontanelle” e della “Fontana”. I pochi che potevano permetterselo utilizzavano la sorgente del Pisciariéllo; poiché questa era più lontana bisognava recarvicisi con gli asini e trasportare l’acqua in barili di legno. Un luogo di ritrovo, soprattutto nelle sere estive e riservato per lo più alle nonne, erano i ballatoi esterni che sono davanti a una grande quantità di case. Gli “afii” erano affollati di vecchiette che, lavorando a ferri maglie e calze, combinavano e scombinavano matrimoni, contribuendo a sedare o accendere liti fra le famiglie vicine.

Caratteristica delle nostre case erano anche le mezze porte che permettevano a tutti non solo di vedere cosa succedeva nelle cucine altrui, quanto di intervenire in eventuali discussioni e dare il proprio contributo alla soluzione dei problemi familiari; alla faccia della “privacy” attuale che ci costringe nel nostro guscio come bruchi, salvo invocare la solidarietà del prossimo in caso di bisogno e strepitare se non la otteniamo. Un buon numero di famiglie residenti erano proprietarie dell’abitazione in cui vivevano o l’avevano ottenuta in enfiteusi dalla Confraternita del Santo Rosario. Dal Cedolario del 1740 risultano proprietarie o enfiteutiche 97 famiglie su 882 abitanti, tassate per 64 ducati, 3 carlini e 7 grana, mentre la Confraternita pagava 80 ducati e 3 grana; nel Catasto Francese del 1809 i beneficiari di una abitazione propria salgono a 206 su una popolazione di circa 1400 residenti, di conseguenza le tasse salgono a 536 ducati e 2 carlini.


Costume tradizionale

Se le donne in ambito familiare contavano poco o niente, quando si passava all’eleganza lasciavano i loro uomini molto, ma molto indietro. Mentre i maschi si dovevano accontentare di un paio di calzoni al ginocchio di panno scuro, calzette bianche, camicia con colletto alto, panciotto abbottonato fin quasi al collo, giacca scura a doppia fila di bottoni e un cappellone, quasi sempre nero, a tesa larga e cupola squadrata, il costume femminile può essere annoverato tra i più belli di tutta la provincia sannitica.

Generalmente era a due pezzi: la gonna e la camicetta. La prima in castorino di colore blu o, più spesso, marrone arrivava alla caviglia ed era fatta a piegoline molto fitte in modo da creare un effetto ottico particolare quando la persona girava su se stessa; la gonna invernale era, invece, di bajetta senza pieghe longitudinali e presentava una falsa piega orizzontale a metà gamba.

La camicetta era di lino bianco, con l’orlo delle maniche ornate di pizzi, mentre la parte superiore del petto e il colletto presentavano dei ricami curvilinei in seta bianca. Il busto era sostenuto da un corpetto di seta damascata, con stecche interne, a colori molto vivaci che andavano dal verde smeraldo, al blu cobalto, al rosso o al viola con ricami in oro; il corpetto era legato sul davanti con lacci di seta e presentava sulla parte posteriore un rigonfiamento interno di ovatta per tenere su la gonna.

Il copricapo era una tovaglia di lana bianca di forma rettangolare con uno dei bordi più piccolo listato da una striscia di seta con motivi floreali o geometrici di colore rosso o nero, se indicanti un lutto recente. Per indossare la tovaglia i capelli, che venivano lavati con acqua in cui era stata messa a bagno per almeno dodici ore della cenere, cosa questa che li rendeva particolarmente lucenti e con rifletti dorati, dovevano essere pettinati a treccia che poi veniva arrotolata molto aderente dietro il capo.

La tecnica per poterla indossare senza che cada è tutta particolare: dopo averla appoggiata per di lungo sul capo in modo che la parte anteriore arrivi a coprire il viso fino al mento, è necessario piegare verso l’interno la parte anteriore pendente, tanto da formare un trapezio isoscele con la base minore molto piccola. A questo punto con un secco movimento delle mani bisogna gettare indietro il tutto fino a scoprire la fronte; in questo modo, se l’operazione è stata eseguita a regola d’arte, la tovaglia assumerà la forma di un copricapo molto squadrato, con i laterali che copriranno le guance.

L’abbigliamento era completato da un largo grembiule di seta tessuto a strisce di gradazioni diverse dello stesso colore con decori geometrici. Il grembiule non era allacciato in vita per intero; il laccio di seta, che fa da cinta, lasciava liberi gli orli superiori in modo che questi ricadevano sul davanti; il colore più usato era il rosso, ma anche il blu e il verde erano molto apprezzati. Al collo e alle orecchie le nostre donne portavano collane d’oro o di corallo a più giri e pesanti orecchini degli stessi materiali.

Se il vestito era a pezzo unico, la camicetta era sostituita da una corta e aderente giacca di colore chiaro, sempre di seta damascata, con pizzi alle maniche e al colletto, stretta sul davanti da bottoni in madreperla o in oro. L’abito giornaliero aveva pieghe più larghe, il grembiule era più piccolo e di panno comune


Giochi di gruppo

PREMESSA I fanciulli, nonostante il fattivo impegno profuso nell’aiutare la famiglia, pur tuttavia riuscivano a ritagliarsi una discreta fetta di tempo da dedicare ai giochi infantili di gruppo, soprattutto all’entrata e all’uscita da scuola, per chi la frequentava. Grosso modo i giochi si dividevano in tre gruppi:

(1) PER BAMBINI -(2) PER BAMBINE – (3) MISTI

Al primo gruppo si possono ascrivere:

  1. “U 305”
  2. “A Ffrummèlle”
  3. “A Gghijòche”
  4. “Scàrrec’a bbòtta”
  5. “A spacca strómmule”
  6. “U wattimàni”
  7. “Mèrculìcchijo”
  8. “Mazza piéuzo”
  9. “Uno ‘mbónd’a luna”

Del secondo gruppo facevano parte:

  1. “A Bbrìcci”
  2. “’A Cambana”

e i giochi attinenti al ruolo della donna nella società degli adulti (preparare il pranzo, allevare i figli…).

Alla terza categoria appartenevano:

  1. “A Ccécarèlle”
  2. “’A Bbandiéra”
  3. “Cégna cégna”
  4. “Tòzzeca, tòzzeca”
  5. “L’addóre” “Atta cécàta”
  6. “Arrìccia puórci”
  7. “’A bbandiér’andica”

A questi si devono aggiungere alcuni giochi tipici dei più piccoli:

  1. “’A catena”
  2. “Ngravacèlla”
  3. “Mammanonna”

 

Non tutti i giochi erano comunque innoqui. I ragazzi, nonostante quello che affermano i cultori della psicologia infantile, sanno essere cattivi, molto cattivi. Uno scherzo poco piacevole era sottoporre qualcuno alla prova del “Wiésscio”.
Bastava che in quattro/cinque lo stendessero per terra e, dopo avergli tirato giù i pantaloni, lo imbottissero di paglia, erbacce, terra e, massimo del divertimento, ortiche. Più cattivo era un altro gioco in voga tra gli adolescenti.
Bastava afferrare, all’improvviso, gli organi genitali di qualcuno, intimare: “Fisca!” e mantenere saldamente la presa fino a che l’altro non avesse fischiato o, quanto meno, tentato una lontanissima parvenza di fischio e non è detto che ci sarebbe riuscito dopo poco tempo.
Un altro tipo di divertimento era rappresentato dall’uso del potassio. Ciclicamente, senza una ragione apparente, i ragazzini di Castelpoto incominciavano a far rintronare l’udito dei paesani facendo esplodere delle piccole, ma fragorose cariche di potassio.
Due erano i modi di utilizzare questo materiale.
Il più semplice era quello di porre su una pietra un pizzico di potassio poggiandoci sopra il tacco dello scarpone, ricoperto da una placca metallica, che serviva anche a ricorrere il meno possibile alle cure del calzolaio, e poi colpirlo con l’altro tacco, a uso militare.
Il secondo era un poco più complicato, ma gli effetti erano più spettacolari. Bisognava munirsi di una vecchia chiave bucata, appenderla ad un filo di spago in modo da formare un triangolo, versare nel cannello una presa di potassio, procurarsi un chiodo di spessore e lunghezza adatta da utilizzare come percussore che andava infilato nel cannello, e, facendola oscillare, farla sbattere con forza contro un muro. Il botto era assicurato e accompagnato dai guaiti dei cani spaventati e dalle bestemmie degli anziani, con grande divertimento dei piccoli teppisti. Oppure lanciare in aria dei missili.
Bastava scavare una buca nel terreno, riempirla di acqua e pezzetti di carburo di potassio, rubati in casa dalla riserva per fare andare le lampade ad acitilene, porci sopra dei barattoli vuoti e dare fuoco al gas che si sprigionava dalla reazione chimica. Il gioco era divertente, ma anche pericoloso, perché si correva il rischio di rimetterci qualche occhio o di rompersi qualche osso se il barattolo non fosse stato posizionato perfettamente in verticale.
Molto interessante era anche un altro modo di giocare: “Acciàcca l’ómbra”. Il fine ultimo era quello di riuscire a mettere un piede sull’ombra degli altri partecipanti per eliminarli ad uno ad uno dal gioco. Questo gioco, in apparenza molto semplice, richiedeva una abilità, una destrezza e una ricerca di strategie non comuni.
Anche i giovani indulgevano alla passione per il gioco, naturalmente sostituendo pietre e bottoni con monete correnti; come nello “Spacca matùni” dove si lanciavano in aria delle monete e vinceva chi riusciva a far cadere la propria più vicino alla linea di congiunzione tra due mattoni.
Uno dei passatempi più apprezzati era lo “Schiaffo del soldato” meglio conosciuto come “U tréciéndócìngo”, molto in voga erano anche “Scàrrec’a bbòtta” e “Spacca strómmule”.
A questi vanno aggiunti il gioco della “Morra” e “Ppatrón’e ssótta” dove la posta in palio erano fiaschi di vino e che non di rado finivano in solenni diverbi che, di solito, si concludevano in risse generali.

Pagina aggiornata il 11/04/2024


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